Islanda, una rivoluzione in cammino

di Sergio Morra
18 gennaio 12

L’Islanda sta cambiando. Ha avuto 18 anni consecutivi di governo conservatore neoliberista, che non era piovuto dal cielo ma eletto democraticamente dai cittadini islandesi. Un popolo istruito,
un popolo fiero, ma un popolo che dal 1991 al 2008 è stato in maggioranza contento dei suoi governi conservatori. Davíð Oddsson aveva un’immagine di liberista illuminato, onesto, efficiente.
Poi il giocattolo si è rotto e, per fortuna, il popolo islandese ha saputo prendersi la responsabilità di cambiare ed ergersi a protagonista del cambiamento.
Per la verità, l’Islanda era molto cambiata anche nel mezzo secolo precedente. Fino alla II guerra mondiale era una colonia danese con parziale autogoverno, popolazione in prevalenza rurale,
stile di vita tradizionale, alto livello culturale (l’analfabetismo era già scomparso nel XIX secolo) ma povertà diffusa. L’indipendenza e la proclamazione della repubblica nel 1944, l’introduzione di metodi industriali nella pesca e nella conservazione ed esportazione del pesce (che è diventato la vera ricchezza nazionale), l’ampliamento delle acque territoriali a prezzo di aspre tensioni con la Gran Bretagna, lo sfruttamento dell’energia idroelettrica e geotermica, l’afflusso di valuta dovuto alla presenza di una base americana a Keflavík, lo sviluppo del turismo, la forte urbanizzazione nella capitale, l’attenzione alle tecnologie avanzate hanno trasformato in pochi decenni un paese povero e arretrato in una democrazia scandinava ipertecnologica e relativamente ricca. Poiché una piccola popolazione deve farsi carico di un’economia produttiva, di uno stato coi suoi servizi e la sua amministrazione, di un’isola vasta con forze naturali prorompenti che vanno tenute sotto controllo, della ricerca e della cultura, delle attività sportive e ricreative, la disoccupazione è sempre stata quasi nulla e anzi parecchi islandesi svolgono diverse attività.
Anche nell’Islanda del XX secolo la storia è stata una storia di lotta tra le classi: forti sindacati operai, presenza di un partito dei contadini (Framsóknarflokkur, Partito Progressista),
scontri di piazza sull’appartenenza alla NATO. Il sistema politico era imperniato su quattro partiti; il partito conservatore (Sjálfstæðisflokkur, Partito dell’Indipendenza) ha radici nella lotta della
borghesia per l’indipendenza dalla Danimarca ed è storicamente il maggiore partito islandese. Fino agli anni Ottanta, nel contesto dell’equilibrio bipolare del mondo, l’Islanda è stata governata da coalizioni: talvolta fra i progressisti e i socialdemocratici (Alþýðuflokkur, Partito Popolare), che in qualche caso hanno coinvolto anche il partito di sinistra filosovietico (che non si chiamava
comunista ma Alleanza Popolare, Alþýðubandalag),1 talvolta fra i conservatori e un altro partito (ora i progressisti, ora i socialdemocratici), senza grandi scossoni nella politica economica e sociale di un paese capitalista scandinavo con un sistema di welfare e di istruzione non peggiore di tanti altri, un certo controllo dello stato sull’economia, un’inflazione talvolta preoccupante, una classe operaia in grado di difendersi.
Dagli anni Ottanta però l’ideologia neoliberista trionfante nell’America di Reagan e nella Gran Bretagna della Thatcher contagia pure l’Islanda. Davíð Oddsson diventa sindaco di Reykjavík
e poi primo ministro, avviando una strenua politica di privatizzazioni.2 Governa in coalizione ora coi socialdemocratici ora coi progressisti, ma nessuno degli alleati oppone alcuna resistenza alla sua politica liberista, che peraltro ottiene successi nella riduzione del debito pubblico, delle tasse e dell’inflazione. Le banche, in particolare, vengono privatizzate dal 2002. Inizia il periodo rampante della finanza islandese. I “vichinghi della finanza” attirano cospicui investimenti stranieri, offrono alti interessi e mutui vantaggiosi per le case, stimolando così anche l’edilizia; investono all’estero, acquisendo proprietà o quote importanti specialmente in Gran Bretagna e in Danimarca. L’orgoglio nazionale per la straordinaria abilità dei finanzieri islandesi, fino a poco prima dell’esplodere della crisi, è diffuso in tutta la società, compresi gli intellettuali di sinistra. La facilità di ottenere prestiti e mutui effettivamente contribuisce (o almeno così sembra!) al benessere del popolo islandese. Nel 2008 però, con l’esplodere della crisi, la favola allegra del neoliberismo si muta in tragedia.


Perché è cambiata l’Islanda?

La crisi finanziaria islandese fa parte dell’attuale crisi internazionale del sistema capitalistico ma ha le sue peculiarità. Inizia a manifestarsi addirittura qualche mese prima del fallimento di
Lehman Brothers che è l’emblema della crisi globale, anche se precipita solo nell’ottobre 2008 col fallimento delle tre principali banche del paese. Le banche privatizzate vengono affidate dal 2002 a manager legati al partito conservatore, che con una politica spregiudicata e rampante le dirigono prima verso una crescita rapida e sproporzionata, poi verso il baratro. Il rapporto della commissione parlamentare d’indagine3 documenta in modo dettagliatissimo i fatti. Le banche iniziano ad attrarre liquidità offrendo rendimenti particolarmente alti. Gli investitori accorrono e i profitti dei vecchi depositi vengono pagati coi depositi nuovi che via via affluiscono. Il sistema per un pò funziona, ma come tutte le catene di S.Antonio diventa a rischio quando i nuovi investimenti non bastano più a reggere la progressione. Le banche inoltre acquisiscono titoli di debito, in gran parte stranieri, chiedendo interessi relativamente bassi. Il gioco diventa rischioso quando la mole dei titoli diventa eccessiva, troppi debitori non pagano e la banca non ha sufficienti riserve di capitali propri per coprire il rischio. A questo punto che fanno i “vichinghi della finanza” per fingere credibilità sui mercati? Le banche prestano grosse cifre ai propri azionisti di maggioranza, che le reinvestono in azioni delle banche stesse, che così appaiono ricapitalizzate (ma con soldi puramente virtuali, autoprestati).
I politici conservatori chiudono sistematicamente gli occhi su tutti questi giochi azzardati e irregolarità amministrative. I loro alleati socialdemocratici sono anch’essi coinvolti nel sistema e si
guardano bene dal metterlo in discussione. A un certo punto le tre banche non sono più in grado di pagare alle scadenze dovute, chiedono aiuti alla Banca d’Islanda e prestiti a banche straniere, finché il castello di carte crolla.
In un certo senso, i “vichinghi della finanza” non hanno fatto altro che spingere a fondo la logica del capitalismo e la sua ideologia: cercare il massimo profitto e la massima crescita dei
bilanci nel più breve tempo possibile, anche assumendosi dei rischi, e non disdegnare di ricorrere al gioco sporco se questo può essere d’aiuto. Dopo il crollo del sistema un certo numero di manager prudentemente fuggono all’estero.
Per la popolazione, però, il crollo della finanza islandese e del miraggio neoliberista ha conseguenze ben più drammatiche di un dorato rifugio all’estero. La tua banca non c’è più. I tuoi
risparmi depositati in banca non ci sono più. Il mutuo con cui avevi comprato la casa o l’auto non c’è più. Molti devono restituire i beni acquistati a credito. Vengono colpiti i piccoli borghesi che
avevano sottoscritto mutui a condizioni favorevoli per comprarsi una casa di lusso o appartamenti da affittare, o che tramite le banche avevano fatto qualche investimento; ma vengono colpiti anche tanti lavoratori e pensionati che in banca conservavano i risparmi di una vita, giovani lavoratori che finalmente si erano comprati casa. Falliscono aziende, non più sostenute dalle banche; nel paese appare un fenomeno nuovo, la disoccupazione. Lo sgomento pervade l’Islanda. L’indignazione è interclassista.
Dopo l’annuncio del crack delle banche le prime manifestazioni sono semispontanee, indette da chi ha qualche esperienza di manifestazioni: collettivi di studenti, femministe, ambientalisti,
gruppi di marxisti impenitenti. Sono manifestazioni tranquille, con pochissime bandiere islandesi, rosse o nere e molti slogan contro Davið Oddsson e Geir Haarde. Esprimono il rifiuto di pagare la crisi, anche con qualche gesto simbolico come bruciare la bandiera di una delle grandi banche, al grido di “bruciamo i pagamenti”. In una città di circa centomila abitanti come Reykjavík migliaia di persone assediano il parlamento, ogni sabato e in certi periodi ogni giorno, con manifestazioni sempre più determinate, sempre più numerose nonostante il progredire dell’inverno islandese. In qualche caso la polizia viene mandata a reprimere le manifestazioni. La cosa è del tutto insolita in Islanda e, sebbene le cariche siano infinitamente meno brutali di quelle che abbiamo visto a Genova durante il G8, cresce ancor più la rabbia popolare contro un governo incapace di risolvere la crisi ein grado di usare solo il manganello. Finalmente Geir Haarde si dimette, con altri dirigenti politici e manager dell’economia, e il Parlamento viene sciolto. È il primo risultato di mobilitazioni popolari tenaci, persistenti e determinate, sebbene limitate negli obiettivi alla cacciata di governanti screditati e a un generico rifiuto di pagare per loro.
L’immediatezza della mobilitazione, il suo carattere unitario e semispontaneo, l’ampiezza e la persistenza delle manifestazioni illustrano, una volta di più, come il tempo storico non sia lineare
ma caratterizzato da svolte e salti repentini. L’egemonia liberista e il predominio dei conservatori duravano da un ventennio, il diffuso benessere economico aveva consolidato la fiducia popolare nel modello capitalistico. Ma come sono stati repentini l’emergere alla luce della crisi delle banche e la dichiarazione di impotenza del governo, così è stato rapido il primo salto di qualità nella presa di coscienza delle classi subalterne: la sfiducia nei governanti e la decisione a cacciarli.


Come sta cambiando l’Islanda?

Da due anni e mezzo l’Islanda ha un governo di centrosinistra, eletto sei mesi dopo il crack delle banche. Questo però non ha affatto risolto i problemi né gode di grande popolarità.6 Il caso dei
fondi Icesave è emblematico. Col crack delle banche si sono volatilizzati anche i soldi depositati sui conti istituiti dalle filiali della Landsbanki in Gran Bretagna e Olanda. I governi di questi paesi
hanno risarcito i loro cittadini correntisti e hanno chiesto di essere a loro volta risarciti dallo stato islandese. Il governo islandese ha accettato la richiesta, che pure avrebbe comportato sacrifici
“lacrime e sangue” per la popolazione. Di qui una nuova impennata delle mobilitazioni, che ha portato a un referendum in cui il 93% degli elettori ha rifiutato di assumersi questo debito. Dalla
vittoria elettorale dei partiti di centrosinistra alla svolta del referendum è passato meno di un anno.
La terza svolta, dopo quelle del crollo del governo conservatore e della vittoria dei no nel referendum sul pagamento dei debiti di Icesave, è data dall’elezione di un consiglio costituzionale
che nel luglio scorso approva una bozza di nuova costituzione dai contenuti molto avanzati. Questa sottolinea i diritti umani e una concezione egualitaria della società, accogliente per tutti; valorizza i diritti dei lavoratori, la difesa dell’ambiente, dei beni culturali e dei beni comuni, così come il diritto al welfare e all’istruzione pubblica gratuita. Sono indicati nella costituzione anche l’elezione del parlamento con una legge completamente proporzionale e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche (una esigenza resa evidente dal comportamento opaco dei precedenti governanti che avrebbero dovuto sorvegliare le banche). Questi contenuti esprimono il grado di coscienza politica e sociale raggiunto dalla popolazione islandese in quasi tre anni di mobilitazioni. Dalla condivisione del modello liberista al ripudio dei governanti corrotti e incapaci, al rifiuto di pagare debiti non propri (i cartelli nelle manifestazioni ribadivano: “il popolo è senza colpa”) alla capacità di progettare una società più giusta, vi è stata una vera e propria successione di salti di qualità nella coscienza delle classi subalterne.
Ma non meno importante dei contenuti della bozza di nuova costituzione è il modo in cui è stata scritta. I 25 membri del consiglio costituzionale sono stati eletti non su liste di partito ma con candidature individuali e un complesso sistema di votazione secondo preferenze ordinate (che è una forte indicazione di sfiducia nei confronti dei partiti tradizionali). Sono stati eletti i 25 candidati che hanno raccolto preferenze individuali più elevate. Questi non si sono riuniti in un palazzo chiuso ma hanno reso pubbliche tutte le discussioni, trasmettendole anche in streaming, offrendo ai cittadini la possibilità di inviare in ogni momento proposte e commenti online.7 Certo la dimensione non ampia della popolazione islandese ha favorito queste forme di partecipazione prossime a una democrazia diretta, ma si tratta comunque di una scelta che richiede, in primo luogo, una volontà politica.
La bozza di costituzione è, però, finora soltanto una bozza; spetta al Parlamento convalidarla definitivamente e non mancano manovre dilatorie al riguardo. Le dichiarazioni del primo ministro
in occasione dell’apertura dell’ultima sessione del Parlamento8 evidenziano tensioni col presidente della repubblica e, a voler pensare male, possono lasciare intendere una proposta di scambio: non intralcerò la nuova costituzione se non mi intralciate nei pagamenti di debiti che possono servire ad avvicinarci all’unione europea.9 La situazione è tuttora fluida, instabile e suscettibile di evoluzione.

L’Islanda è cambiata di colpo?

Pur se la coscienza politica degli islandesi ha compiuto rapidi salti di qualità in questi tre
anni, a seguito della crisi, non va però dimenticata l’antica tradizione politica di sinistra, con una
forte componente marxista. Alleanza Popolare10 tra gli anni quaranta e novanta ha avuto percentuali
di voto solitamente fra il 15 e il 20%, un’influenza preminente nei sindacati e, a fine anni quaranta,
nelle forti mobilitazioni contro l’adesione alla NATO, sebbene in seguito la sua partecipazione a
governi di coalizione ne abbia fortemente limitato la radicalità. Nel periodo post-sessantotto
esistevano gruppi maoisti e trotskisti. Negli anni ottanta e novanta si presentò alle elezioni una
formazione femminista, la Lista delle Donne (Kvennalistinn) che, ottenendo tra il 5 e il 10% dei
voti, costituì la prima esperienza al mondo di rappresentanza femminista in parlamento. Verso la
fine degli anni novanta, nel clima culturale e politico della “fine delle ideologie” che accompagnò il
crollo dell’URSS e dei regimi burocratici nell’est europeo, sia Alleanza Popolare sia la Lista delle
Donne si sciolsero, perché la maggioranza dei loro gruppi dirigenti decise pragmaticamente di
confluire nei socialdemocratici11; ma non tutta quella esperienza andò perduta. La minoranza di
sinistra di Alleanza Popolare rifiutò la confluenza e fondò un nuovo partito, la Sinistra Verde
(Vinstragrænir), caratterizzato da tematiche laburiste e ambientaliste, che già nel 1999 ottenne il
9% dei voti con un trend da allora in crescita. E, al di là della nascita sul piano istituzionale di un
partito di sinistra verde, l’esperienza dei decenni precedenti ha continuato a vivere nella memoria
delle generazioni meno giovani, in alcuni blog12, nella cultura nazionale13 e in qualche aggregazione
informale giovanile.
Se dunque le idee anticapitaliste e socialiste “vengono da lontano” e, come vecchie talpe,
hanno continuato anche negli ultimi decenni a scavare sottoterra e a circolare attraverso processi
molecolari, negli ultimi tre anni gli eventi hanno avuto una serie di brusche e rapide accelerazioni a
seguito all’esplodere della crisi finanziaria e al precipitare delle sue conseguenza. Decisiva è stata la
radicalizzazione della piccola borghesia, precedentemente il principale pilastro sociale dell’ordine
neoliberista, che si è trovata materialmente impoverita dalla crisi e soggettivamente si è sentita (non
a torto) tradita da un sistema politico-economico che prometteva libertà, benessere, ricchezza facile.
Abbiamo visto così anzitutto le manifestazioni contro il governo di Geir Haarde e il suo
entourage di manager e banchieri, l’elezione di un governo di centrosinistra e poi il suo rapido
sfiduciamento popolare nel primo referendum sul debito. Nelle foto delle manifestazioni per il
referendum che più spesso si sono viste in Italia lo striscione di apertura porta la scritta Alþingi
götunnar, “Il Parlamento della strada”: la democrazia partecipativa del movimento contrapposta alla
politica istituzionale, al Parlamento a maggioranza di centrosinistra democraticamente eletto da
neppure un anno ma incapace di rispondere alle richieste popolari e di rigettare quelle della finanza
europea. A ulteriore riprova della sfiducia nei confronti della politica istituzionale, compreso il
governo di centrosinistra, registriamo dopo breve tempo l’elezione di un attore comico a sindaco di
Reykjavík 14 e poi il 60% di voti contrari nel secondo referendum su una nuova versione (attenuata e
motivata con argomenti europeistici) della proposta di pagare i debiti di Icesave a Gran Bretagna e
Olanda. Da allora, i sondaggi indicano regolarmente circa un 15% di fiducia popolare per il governo
(e percentuali ancora minori per l’opposizione di centrodestra). In questo quadro si comprende il
senso dirompente della proposta di un’assemblea costituente eletta non in base a liste di partito, la
vivace partecipazione popolare (soprattutto attraverso mezzi informatici) alla discussione della
bozza di costituzione e l’emergere di contenuti egualitari, ambientalisti e socialisteggianti.
Il quadro politico istituzionale presenta segni vistosi di instabilità. Nelle elezioni del 2009,
oltre ai quattro partiti principali (Sinistra Verde, Unione socialdemocratica, Partito Progressista di
tradizione contadina e Partito dell’Indipendenza conservatore) ha ottenuto una rappresentanza in
parlamento anche il nuovo Movimento dei Cittadini (Borgarahreyfingin), su confuse posizioni
democratico-radicali, col 7%; ma dei 4 deputati eletti uno è subito passato con la Sinistra Verde,
mentre gli altri 3 ne sono usciti dopo qualche mese fondando un nuovo Movimento (Hreyfingin),
non più dei cittadini, su posizioni antieuropeiste. D’altra parte, anche un quinto dei deputati della
Sinistra Verde sono usciti dal loro partito. L’attore comico Jón Gnarr, nella sua vittoriosa campagna
elettorale per l’elezione a sindaco di Reykjavík, ha fondato una lista chiamata provocatoriamente il
Partito Migliore (Besti Flokkurinn) ma nonostante le idee radicali e anarcoidi di Jón Gnarr il Partito
Migliore ora inizia ad assumere vita propria, assorbendo transfughi dal centrista Partito Progressista
e proponendosi come possibile puntello della componente moderata ed europeista del governo.
Dalla radicalizzazione della piccola borghesia emergono quindi nuovi e instabili partiti, che per ora
contribuiscono a mantenere in fibrillazione il quadro istituzionale ma rischiano di cristallizzarsi in
nuove espressioni del conservatorismo piccoloborghese. All’interno del governo vi sono tensioni
soprattutto sulle questioni di politica economica e internazionale, espresse ad esempio dalle recenti
polemiche15 fra il primo ministro e il ministro della pesca (Jón Bjarnason, della sinistra verde) e
perfino fra il primo ministro e il presidente della repubblica. Le instabilità istituzionali, come
sempre, non sono che un riflesso delle dinamiche e dei conflitti nella società reale e costituiscono
ulteriori indicazioni del fatto che la partita è tuttora in corso. Una serie di svolte sono avvenute (la
fine del dominio politico conservatore, il trionfo nel referendum dei no al pagamento del debito, la
bozza di nuova costituzione), altre ne possono ancora arrivare.
È una rivoluzione? È una rivoluzione socialista?
Talvolta si parla di rivoluzione islandese, “la rivoluzione delle pentole e delle padelle” e in
effetti il movimento popolare ha prodotto e sta producendo cambiamenti di governo, di costituzione
e della cultura e ideologia dominanti. Non sono però cambiati né il sistema politico (una repubblica
parlamentare) né quello economico (che rimane capitalista). Non si è quindi compiuta, almeno
finora, né una rivoluzione politica (anche se ci si è liberati da un ceto politico corrotto) né una
rivoluzione sociale.16 Ma sarebbe sbagliato dare un giudizio classificatorio, un’etichetta, basandosi
solo sullo stato attuale delle cose senza tenere conto del loro sviluppo dinamico. La nuova
costituzione non è ancora in vigore, la mobilitazione popolare non è conclusa, questioni politiche ed
economiche fondamentali sono tuttora aperte e oggetto di controversia, il sistema politico è instabile
e il governo non gode di molto credito. Possiamo dire che si tratta di una rivoluzione in corso. Una
rivoluzione tuttora incompiuta, iniziata come lotta contro un ceto politico e manageriale screditato,
ribellione a una crisi finanziaria percepita come ingiusta; ma a questo punto di partenza sono seguiti
rapidi salti di qualità ed è senz’altro possibile che, con nuovi salti, emerga una spinta verso
cambiamenti davvero rivoluzionari.
Le rivoluzioni spesso non nascono con programmi chiari già all’inizio come Minerva dalla
testa di Giove, ma maturano strada facendo; iniziano con ideologie democratiche liberali ma, di
fronte all’incapacità del capitalismo di risolvere i problemi, si riscoprono socialiste. “Per un periodo
di durata indefinita, tutti i rapporti sociali si trasformano con una costante lotta interna. La società
non fa che mutare pelle di continuo. Ogni fase della trasformazione deriva direttamente dalla
precedente.”17 In Islanda potrebbe andare così; ma potrebbe anche accadere che, superata la fase
acuta della crisi, la società si riassesti in un “normale” funzionamento del sistema capitalistico,
secondo un modello liberista reso appena più avveduto dall’esperienza della crisi. Molto dipenderà
dalle contingenze internazionali e molto dalla capacità dei leader del movimento. Devono venire al
pettine (e presto ci verranno) due nodi fondamentali: il rapporto con l’Unione Europea e le scelte di
politica economica, in particolare riguardo la pesca che è la principale ricchezza nazionale.
L’Islanda appartiene all’Europa?
L’Islanda aderisce a diversi trattati europei tra cui l’EFTA, ma non fa parte dell’Unione
Europea. Dei due partiti di governo, i socialdemocratici sono fortemente favorevoli all’adesione,
mentre la sinistra verde è contraria. Anche l’opposizione è divisa: i progressisti sono nettamente
contrari all’UE e nei conservatori, che pure sono filo-NATO e filo-americani, la posizione contraria
è prevalente. Ragioni economiche e ideologiche si intrecciano. La borghesia islandese, che ha un
peso modesto nell’economia internazionale, in assenza di barriere protezionistiche potrebbe essere
fagocitata dai concorrenti europei. Inoltre l’Islanda ha dal medio evo una tradizione di indipendenza
politica e di cultura nazionale, che nell’ottocento è stata valorizzata dalla borghesia islandese come
base ideologica della lotta per l’indipendenza dalla Danimarca.18 Non a caso, il partito conservatore
continua a denominarsi Partito dell’Indipendenza. I socialdemocratici, invece, sostengono da tempo
l’adesione all’UE in nome della stabilità della moneta. Venti o trent’anni fa, in presenza di una forte
inflazione, agganciarsi sia pure in modo subordinato alle economie europee poteva apparire come
una cura meno dolorosa rispetto al drastico monetarismo e liberismo conservatori. L’integrazione di
settori della borghesia islandese nelle cordate capitalistiche europee è un obiettivo concreto che si
sposa bene con un’ideologia di apertura culturale all’Europa e al mondo. Quanto ai conflitti con la
Gran Bretagna nelle “guerre del merluzzo”, le acque territoriali islandesi furono ampliate tre volte,
per decisione di coalizioni di centro-sinistra nel 1958 e nel 1972, di una coalizione di centro-destra
nel 1976. Il rapporto con l’Europa è stato quindi motivo di divisioni entro sia la destra sia la sinistra
dello schieramento politico istituzionale, nonché argomento controverso nell’opinione pubblica.
A seguito della crisi finanziaria del 2008 l’obiettivo di aderire all’Unione Europea ha goduto
inizialmente di grande favore nella popolazione islandese, anche tra le classi subalterne e la piccola
borghesia impoverita. Alla luce dell’esperienza di una svalutazione di circa il 50% della corona
islandese, infatti, appariva assai desiderabile l’idea di stabilizzare l’economia e avere come moneta
nazionale il solido euro anziché una piccola króna evanescente. Si potevano sentire argomenti “di
sinistra” a favore dell’adesione all’UE, come ad esempio: Non me ne importa nulla se poi verranno
le navi inglesi a pescare nelle nostre acque, intanto ormai i pescherecci islandesi sono tutti in mano
a grandi capitalisti, per cui non fa nessuna differenza che sia un capitalista islandese o uno inglese a
sfruttare il nostro mare. Apparentemente l’argomento non fa una grinza. In realtà, esso ignora i
vincoli che le istituzioni europee impongono ai paesi membri, anzi, la vera e propria espropriazione
di sovranità politica degli stati i cui governi e parlamenti sono obbligati a obbedire alle direttive
della BCE e della commissione europea. Come ben sappiamo, di solito queste direttive impongono
politiche neoliberiste e antipopolari. È chiaro quindi che un’eventuale adesione all’Unione Europea
porrebbe una pietra tombale sulla rivoluzione islandese, imponendo un ritorno al neoliberismo
eterodiretto da Bruxelles e Francoforte.
La richiesta dei governi britannico e olandese di essere risarciti dallo Stato islandese per il
fallimento dei fondi Icesave, e la conseguente battaglia referendaria che ha portato alla decisione di
non pagare il debito, hanno iniziato a evidenziare alla popolazione islandese i costi dell’adesione
all’Europa.19 Tuttavia lo spostamento nell’opinione pubblica rispetto alla questione europea non è
stato ancora decisivo: infatti a un primo referendum in cui il 93% ha votato contro il pagamento del
debito ne ha fatto seguito un secondo, in cui il pagamento (sia pure non totale) del debito veniva
motivato con ragioni europeistiche e i voti contrari al pagamento, pur restando maggioranza, sono
stati questa volta solo il 60%. Le notizie sui “sacrifici” e le privatizzazioni che l’UE impone alla
Grecia e agli altri paesi finanziariamente instabili, tra cui l’Italia, e gli scioperi che ne sono seguiti
in questi paesi stanno probabilmente contribuendo a un’ulteriore presa di coscienza degli islandesi.
Anche la recente denuncia della commissione di vigilanza dell’EFTA contro l’Islanda può avere
effetti “pedagogici”. Le istituzioni europee iniziano a essere percepite come un cerbero del capitale.
L’adesione all’UE resta però un caposaldo del programma dell’unione socialdemocratica, per cui
l’esito della partita pro o contro l’adesione sarà decisivo per il futuro dell’Islanda.
Il futuro dell’economia.
I rapporti di produzione e di proprietà sono sempre essenziali per definire i cambiamenti di
regime economico-sociale. Per questo è fondamentale l’attuale discussione (o per meglio dire, gli
attuali contrasti) sulle quote di pesca.
Storicamente l’economia islandese era basata sull’agricoltura/allevamento e sulla pesca. I
contadini erano considerati la classe pilastro della struttura sociale dell’Islanda. Il settore agricolo
nell’ultimo mezzo secolo ha però perso importanza, le campagne si sono spopolate, la figura del
contadino indipendente ha perso la sua centralità sociale e culturale, l’agricoltura è anzi sussidiata
per garantirne la sopravvivenza. Cambiamenti tecnologici, globalizzazione, effetti del neoliberismo
hanno parecchio stravolto la struttura dell’economia islandese: secondo i dati della banca centrale
islandese20 nel 2009 il 26% del PIL è dato dai servizi e il 23,6% da rendite e attività finanziarie e
assicurative. La pesca e il trattamento del pesce sono calati dal 16% del 1980 al 6,3% del 2009.
L’agricoltura produce l’1,4% (ed è sovvenzionata con l’1%) del PIL. Tuttavia, se si guarda alle
esportazioni, nel 2009 il pesce ha costituito il 26% del totale (e il 42% delle esportazioni di merci).
Malgrado il calo dal 1990 (quando le corrispondenti cifre erano rispettivamente il 56% e il 75%) si
tratta sempre di una porzione molto consistente, per cui i prodotti del mare costituiscono tuttora il
settore principale dell’export. In compenso negli ultimi decenni è cresciuta l’esportazione di metalli
(alluminio e ferrosilicio costituiscono il 24% del totale nel 2009), la cui produzione è facilitata dalla
grande disponibilità di energia idroelettrica a buon mercato. Se la pesca, pur restando un settore
centrale dell’economia, è diminuita di peso non è però solo per la crescita di altri settori, come il
terziario, la metallurgia, l’industria del software, quella farmaceutica e il turismo. Vi è stata anche
una effettiva riduzione quantitativa della pesca a causa delle limitazioni introdotte a partire dal 1981
e dell’istituzione delle quote nel 1984. La limitazione della pesca del merluzzo e di altre specie è
stata una scelta saggia per ragioni ecologiche, in quanto una pesca indiscriminata avrebbe finito per
mettere a rischio le specie pescate: il Canada non ha seguito la stessa via e la conseguenza è stata
l’esaurimento dei banchi di Terranova, un tempo la più grande popolazione di merluzzi al mondo. Il
problema sociale è, però, chi acquisisce il diritto (ora limitato) di pescare.
La scelta dei conservatori islandesi, a partire dagli anni Ottanta, è stata la suddivisione del
totale nazionale consentito in quote individuali assegnate ai proprietari di pescherecci e calcolate in
proporzione al pescato degli anni precedenti; tali quote possono essere liberamente vendute e
comprate, al pari delle azioni di qualsiasi azienda in un sistema capitalistico. In questo modo però i
proprietari di un singolo peschereccio o di una flotta molto piccola, anche a seguito della riduzione
progressiva del totale nazionale, si trovarono impediti a pescare una quantità sufficiente per rendere
redditizia l’attività, e quindi costretti a vendere le quote ai padroni di flotte di pescherecci di grande
tonnellaggio e con tecnologie avanzate. Nel giro di un decennio i pesci nel mare erano di fatto
privatizzati, perché l’industria della pesca islandese era ormai quasi interamente concentrata in
poche mani.21 Di qui l’eliminazione dei piccoli pescatori, la drastica riduzione della forza lavoro
impiegata, la crescente ineguaglianza economica, lo spopolamento delle piccole comunità costiere, i
cambiamenti nella cultura della pesca.22 La concentrazione della proprietà e dei profitti della pesca
nelle mani di pochi capitalisti è diffusamente percepita come un’ingiustizia sociale (anche perché le
risorse marine sono nominalmente proprietà collettiva della nazione) e negli anni Novanta ci sono
stati importanti scioperi dei pescatori.
L’attuale governo, inizialmente, aveva proposto di espropriare gradualmente (nel giro di 20
anni) le quote e sostituirle con un sistema di leasing con corsie preferenziali per le piccole comunità
costiere. Ora pare che questa idea sia stata abbandonata, ma le proposte successive vanno ancora nel
senso di una riduzione della concentrazione e trasferibilità delle quote e di un maggiore sostegno ai
piccoli paesi costieri. Tuttavia gli industriali della pesca premono fortemente contro queste proposte
(con argomenti basati sulla razionalità capitalistica: la concentrazione della proprietà garantisce
efficienza) e anche in seno al governo vi sono scontri fra primo ministro (socialdemocratica ed
europeista) e ministro della pesca (della sinistra verde e antieuropeista), con richieste di dimissioni
di quest’ultimo.23
Il governo è una coalizione che comprende esponenti liberisti temperati, liberali fautori di un
modello capitalista dal volto un po’ più umano, ambientalisti non necessariamente intransigenti,
esponenti di una sinistra cautamente socialisteggiante, fautori e oppositori dell’adesione all’unione
europea. È ovvio che un po’ di nodi dovranno venire al pettine e che non sempre i compromessi
saranno possibili. L’interazione fra politica istituzionale, discussioni in rete, forme di partecipazione
dal basso e manifestazioni di piazza, l’efficacia della pressione dei movimenti, saranno decisive per
dirigere decisamente la rotta verso la proprietà collettiva dei principali mezzi di produzione o verso
il ritorno alle logiche liberiste. Se la mobilitazione è stata straordinariamente unitaria contro “nemici
comuni” come i politici conservatori corrotti, i manager incompetenti e intrallazzatori, il pagamento
dei debiti Icesave da parte dello Stato, va pur detto che nei movimenti sono inevitabilmente presenti
interessi differenti. Nelle manifestazioni dell’ultimo anno spicca la presenza organizzata di due
sigle, Attac e l’associazione della piccola proprietà immobiliare, che obiettivamente rappresentano
gli interessi di classi sociali diverse. Fin qui il movimento islandese ha dato prova di un incredibile
ecumenismo (ad es. la bozza di costituzione è stata approvata all’unanimità da tutti i 25 membri del
consiglio costituzionale), ma è prevedibile che su questioni molto materiali come la proprietà dei
diritti di pesca non sia facile continuare a mediare.
Pur senza farsi troppe illusioni sulla natura del governo islandese (che come si è già detto
non gode di altissimo credito nella popolazione) né delle forze politiche che lo costituiscono (divise
anche al proprio interno), va però segnalato come un fatto da non trascurare che nel governo e nel
suo entourage esistono effettivamente delle tendenze di sinistra. Un’ampia intervista24 di Huginn
Freyr Þorsteinsson, consulente politico del ministro delle finanze, fornisce un quadro abbastanza
chiaro di ciò che è o non è condiviso nell’attuale schieramento di governo. Gli scopi condivisi dal
governo sarebbero la “risurrezione” dell’economia islandese e l’allineamento agli standard di
welfare dei paesi nordici. È generalmente riconosciuto anche che le politiche di privatizzazione dei
precedenti decenni sono state nocive e che bisogna evitare di ripetere l’errore, per cui è condivisa la
scelta di “stare alla larga dalle privatizzazioni” e dalle politiche di austerità guidate da principi
neoliberisti. Vi è invece maggiore discussione su questioni come la proprietà e il controllo delle
banche, la proprietà e lo sfruttamento di risorse quali i diritti di pesca e l’energia idroelettrica e
geotermica, il destino delle aziende fallite a causa della crisi, il controllo pubblico sui mercati.
Possiamo imparare qualcosa dall’Islanda?
Il primo insegnamento dell’esperienza islandese è il carattere repentino delle svolte e dei
salti di qualità: il tempo storico non scorre in modo uniforme, può esserci un intero ventennio in cui
non accade nulla di sconvolgente, dopodiché improvvisamente precipita una crisi, la lotta di classe e
la partecipazione politica si risvegliano e la situazione diventa potenzialmente rivoluzionaria in
breve tempo.
Questo comporta anche, da parte di un’organizzazione politica adeguata,25 la capacità di
cogliere la dinamica del cambiamento e saper modificare altrettanto rapidamente gli obiettivi da
indicare, le proposte politiche immediate, la tattica d’azione. In Islanda evidentemente non c’è
un’organizzazione politica adeguata ma, di fronte alla drammaticità e all’urgenza dei compiti,
questa viene almeno in parte surrogata ora da gruppi tematici o almeno apparentemente residuali,
ora da discussioni in rete o dinamiche spontanee di movimento, ora dalle tendenze più di sinistra
nello schieramento istituzionale e governativo. Questa surroga è almeno in parte possibile data
anche la dimensione numericamente ridotta della popolazione (circa 300 mila abitanti). In Italia,
dove la popolazione è 200 volte più numerosa, le conseguenze della mancanza di un’organizzazione
politica adeguata sono inevitabilmente più pesanti (lo si vede anche nelle difficoltà di dare una
risposta efficace alla manovra finanziaria del governo Monti) e perciò tanto maggiore la necessità e
l’urgenza di costruire un’adeguata organizzazione politica anticapitalista.
Un secondo insegnamento dell’esperienza islandese, e per la verità di tante altre esperienze
in giro per l’Europa, è l’impossibilità di sperare alcunché di positivo da parte dei governi cosiddetti
di centrosinistra. In Islanda, dopo soli 7 mesi dalla vittoria elettorale, i partiti di centrosinistra
approvano una legge che impone alla popolazione sacrifici “lacrime e sangue” per pagare il debito
di Icesave alla Gran Bretagna e all’Olanda. C’è voluta una straordinaria mobilitazione popolare, il
coinvolgimento del presidente della repubblica e infine un referendum per stroncare una legge così
illuminata e progressista varata dal centrosinistra islandese. Non pago della lezione, dopo 14 mesi il
governo islandese ci riprova ma un nuovo referendum li ferma ancora. Non meraviglia che la
fiducia nelle istituzioni e il loro prestigio siano così bassi in Islanda! Il caso islandese da questo
punto di vista è tutt’altro che unico, se poniamo mente alla politica suicida dei socialisti greci e
spagnoli di fronte alla crisi. Quanto all’Italia, la precarietà del lavoro è esplosa “grazie” al pacchetto
Treu, la guerra alla Jugoslavia è stata condotta dal governo D’Alema, i tagli alla scuola sono iniziati
col ministro Russo Jervolino, l’università ha iniziato a essere privatizzata dal socialista Ruberti e il
suo successore L. Berlinguer ha ben proseguito l’opera, la militarizzazione della Val di Susa è stata
proposta da Fassino (Maroni glie l’ha prontamente accordata) e le pensioni sono state tagliate e
svuotate in successione da Dini, Maroni, Prodi, Tremonti e ora Monti, con un’alternanza di mazzate
di centrodestra, di centrosinistra e bipartisan. Eppure c’è ancora chi parla di baciare rospi e di
alleanze elettorali col PD.
La stessa elezione di Jón Gnarr a sindaco di Reykjavík, che è stata una protesta sia contro i
conservatori caduti in disgrazia, sia soprattutto contro i socialdemocratici che avevano appena
approvato “lacrime e sangue” per pagare i debiti Icesave, non sembra avere avuto effetti di rilievo
né sulla vita della città né sulla politica islandese. A noi italiani può ricordare un altro attore comico
fondatore di un movimento che ha riscosso un certo successo in elezioni amministrative recenti, ma
che (come Jón Gnarr) non ha posizioni politiche chiare e sostanzialmente alternative ed esprime più
che altro una confusa protesta simbolica.
Un altro insegnamento dell’esperienza islandese, banale ma importantissimo, è che vincere è
possibile. Anche in Italia nonostante tutto c’è stata di recente qualche piccola vittoria, come quella
nei 4 referendum di giugno, che naturalmente il regime bipolare si affretta a seppellire in modo
bipartisan. In Islanda, con una crisi molto più grave di quella italiana, grazie a mobilitazioni molto
più forte che in Italia, si sono ottenuti risultati infinitamente superiori: il popolo islandese ha
massicciamente respinto il pagamento di debiti non suoi, c’è una nuova e avanzata costituzione
pronta per entrare in vigore, c’è una rivoluzione in marcia e, per quanto il processo sia tutt’altro che
concluso, è comunque ampiamente riconosciuto che l’Islanda è uno dei paesi che stanno meglio
uscendo dalla crisi.26
Un altro insegnamento riguarda le forme di partecipazione e democrazia diretta. Ogni paese
inventa le sue forme di partecipazione democratica, di democrazia rivoluzionaria, dalla comune di
Parigi ai soviet russi ai consigli operai in Italia. La tecnologia odierna, la piccola dimensione della
popolazione e la sua particolare distribuzione sul territorio hanno indotto a usare soprattutto internet
per costruire il referendum, discutere la costituzione, dare continuità alla mobilitazione e premere
sul parlamento. Non si è provveduto a “spezzare la macchina dello stato borghese”, anzi per la
verità nessuno ci ha nemmeno provato ed esistono un parlamento in fibrillazione, un primo ministro
socialdemocratico e un attore comico sindaco della capitale eletti secondo tutte le forme delle regole
democratiche consuete. Ma nessuno si sogna di delegare loro il potere in modo incondizionato. Gli
organismi alternativi come il comitato costituzionale, le discussioni in rete e le manifestazioni in
piazza affiancano gli organismi formalmente democratici dello stato e creano una dualità tra organi
del potere politico e organi della partecipazione democratica e della mobilitazione popolare.
Non a caso in Italia negli ultimi decenni, al mutare dei rapporti di forza, le burocrazie
sindacali hanno “superato” i consigli di fabbrica sostituendoli con le più controllabili RSU e ora la
borghesia vuole eliminare anche queste sopprimendo ogni forma di democrazia sui luoghi di lavoro.
Non a caso i movimenti universitari italiani nel corso dei decenni hanno vissuto momenti di lotta
molto acuta seguiti da lunghi periodi di stagnazione, anche per mancanza di strumenti democratici
di coordinamento controllati dal basso, che dessero continuità ai movimenti anche nei periodi di
minor tensione. Senza strumenti di partecipazione democratica dal basso rimangono incontrastate le
direzioni burocratiche o le élite autoproclamate, con risultati deleteri per i movimenti reali.
In Islanda lo stato borghese non è spezzato, ma è fortemente disturbato nel suo modo di
lavorare. Apparentemente almeno qualcosa è stato spezzato, cioè il legame fra banche privatizzate,
politici corrotti e manager disonesti, grazie a meccanismi di controllo effettivo dello stato sulla
finanza. La richiesta di trasparenza è stata in primo piano nei lavori del comitato costituzionale. Si
sono spezzati anche un governo e la politica di sacrifici approvata dal governo successivo. Non
sappiamo se il movimento riuscirà a spingersi ancora più avanti, spezzando tutte le forme di
separatezza della politica dalle esigenze e dalle realtà della popolazione. Quanto più il movimento
sarà capace di intromettersi nelle questioni economiche, ecologiche e sociali, tanto più le forme
tradizionali della democrazia rappresentativa si riveleranno orpelli che impacciano la partecipazione
dal basso e garantiscono uno spazio al lobbysmo. La sfida aperta, per i movimenti, è far crescere la
partecipazione democratica dal basso cosicché le modalità borghesi della politica (il lobbysmo, il
controllo dei media da parte del capitale, l’intrallazzo fra borghesia e ceto politico) non possano più
esercitare la propria egemonia su organismi rappresentativi eletti democraticamente ma separati; il
problema da risolvere è rispettare l’universalità del diritto al suffragio senza perdere la sostanza del
diritto all’informazione, al controllo e alla partecipazione decisionale.
17
Infine l’Islanda ci insegna la dimensione europea dei problemi. Se il popolo islandese è
riuscito a fare una mezza rivoluzione è anche perché l’Islanda non è uno stato dell’unione europea.
Se ne facesse parte, avrebbe dovuto ingoiare medicine greche e olio di ricino tedesco: pagare debiti,
fare sacrifici, accrescere l’ineguaglianza, devastare l’ambiente e cacciarsi nella recessione, come si
fa in tutti i paesi civili europei. Ma per l’Italia e per gli altri paesi dell’UE è improbabile potersi
staccare dall’Europa; i meccanismi d’integrazione sono già andati piuttosto avanti e non si può più
tornare a “prima”. Il fatto che i sacrifici vengano imposti ora all’Irlanda, ora alla Grecia, ora al
Portogallo, ora all’Italia come una naturale e fatale necessità europea suggerisce che per i popoli di
questi paesi è ben difficile resistere in ogni singolo paese al massacro dei diritti e alla rapina che la
borghesia organizza su scala continentale. È necessario un movimento europeo, sono necessari
scioperi europei contro le politiche che la borghesia europea impone da Bruxelles e da Francoforte.
Epilogo
La storia non è finita e non sappiamo come andrà a finire. La letteratura islandese è ricca di
storie in cui le aspirazioni alla giustizia o al riscatto sociale si spengono in una fine tragica. Nella
saga omonima l’anziano e saggio Njáll viene bruciato vivo nella sua casa con tutta la famiglia. Nei
romanzi di Laxness Gente indipendente e Salka Valka il contadino Bjartur assiste impotente alla
rovina della fattoria e della sua famiglia, la militante Salka resta sola e disillusa in un mondo in cui
regna l’opportunismo. Non si trova facilmente in letteratura un lieto fine per chi aspira a un mondo
migliore.
Ma qui non siamo nella letteratura e la storia che gli islandesi stanno scrivendo è quella del
loro futuro. Il popolo islandese, con tenacia e ostinazione islandese, ha fatto fronte al crack delle
banche e all’improvvisa penuria, ha acceso falò in piazza nelle più fredde notti d’inverno e si è
sbarazzato di un governo corrotto, ha legato le mani di un governo irragionevole e ha scritto una
nuova costituzione. Non credo che vorrà facilmente arrendersi per tornare a quell’ordine naturale in
cui le ricchezze sono al di sopra delle vite degli uomini.
Postilla (10 gennaio 2012)
Il 3/1/2012 vi è stato un rimpasto del governo; il Ministero della Pesca e dell’Agricoltura
è stato accorpato al Ministero dell’Economia e Jón Bjarnason non è più ministro. La sua prima
dichiarazione è stata che lo hanno esautorato per via della sua posizione contraria all’adesione
alla UE. Come volevasi dimostrare, un po’ di nodi cominciano a venire al pettine.

__________________________________________________________

note
1 La sporadica presenza (’56, ’71, ’78) di Alleanza Popolare al governo contribuì alla politica islandese di ampliamento
delle acque territoriali, ma a parte ciò si esaurì in estenuanti trattative sui rapporti con la NATO e nell’estromissione dal
governo quando si aprivano conflitti su questioni concrete, come la politica salariale nel ’58. Vedi: Mintz A., De Rouen
K.R. (2010), Understanding Foreign Policy Decision Making, Cambridge University Press; Janda K. (1980), Political
Parties: A Cross-National Survey, New York: The Free Press; e in italiano il sito http://islanda.altervista.org
2 Vedi il sito ufficiale governativo http://eng.forsaetisraduneyti.is/ministry/Privatisation/
3 Vedi il sito ufficiale della commissione d’indagine http://sic.althingi.is/
4 Finché il gioco rischioso o addirittura sporco ha successo, la morale borghese elogia l’audacia e l’abilità dei giocatori.
Non appena falliscono, però, anche la morale borghese autorizza a indagare sui crimini degli sconfitti. Ad esempio,
Ingvar Vilhjálmsson, un alto manager della banca Kaupþing, è stato recentemente condannato a restituire i soldi che si
era auto-prestato prima che la banca fallisse: non bruscolini ma l’equivalente di oltre 16 milioni di euro (Morgunblaðið,
2 novembre 2011). Il Parlamento in settembre ha autorizzato l’incriminazione dell’ex primo ministro conservatore Geir
Haarde per omessa vigilanza sul sistema bancario, negando però l’autorizzazione nei confronti di altri indagati. Si può
ritenere che in questo caso Geir Haarde abbia funto da capro espiatorio, indicato quale unico responsabile per evitare di
affondare la lama in tutto l’intrico di commistioni fra sistema politico e finanziario. (Di tale intreccio erano infatti
partecipi anche esponenti del partito socialdemocratico, ora al governo ma precedentemente alleato dei conservatori).
5 Il grande scrittore Einar Már Guðmundsson, in un’articolo sull’eruzione al Fimmvörðuháls che con le sue nuvole di
cenere aveva interrotto i voli aerei in mezza Europa, tratta l’eruzione vulcanica come una metafora della rivoluzione
sociale e scrive: “La gente, qui e altrove, vede ogni giorno calpestati i concetti di giustizia ed è stanca. Si è accorta che
c’è molto di sbagliato fin dalle fondamenta. E allora ecco il vulcano, la cenere, l’eruzione naturale e magari sociale. In
Islanda abbiamo già avuto i primi segnali di questa insoddisfazione quando la gente ha detto ‘no’ alla restituzione dei
soldi delle banche islandesi finite gambe all’aria ... Gli inglesi vogliono dall’Islanda soldi che di islandese hanno solo il
nome. La gente che li muoveva, che li ha fatti sparire, era – anzi è – ancora lì tra loro, annidata nella City. Sanno chi
sono, vadano ad arrestarli e non ci rompano le scatole con queste stupidaggini.” Il Secolo XIX, 17 aprile 2010, “In quel
vulcano c’è la nostra rivolta”.
6 Un sondaggio condotto in ottobre 2011 rivela che il governo gode della fiducia del 14,1% della popolazione; ancora
minore è peraltro la fiducia nell’opposizione di centrodestra (13,6%) o nel parlamento come istituzione (10,9%): vedi
http://www.grapevine.is/News/ReadArticle/Trust-For-Government-Greater-Then-For-Opposition
7 Vedi il sito ufficiale del consiglio costituzionale, http://stjornlagarad.is
8 Iceland Review Online, 4 ottobre 2011.
9 Il pagamento dei debiti Icesave è effettivamente iniziato, nella misura di 21000 euro per ogni creditore olandese o
inglese, non a carico dello Stato ma di Landsbanki, attraverso un fondo costituito dai crediti recuperati. La Corte
Suprema ha infatti deliberato che, sebbene a seguito del referendum lo Stato non sia tenuto al pagamento, Landsbanki
resta comunque responsabile dei debiti. Essendo ora prevalentemente statale la proprietà di Landsbanki, si tratta in parte
di un modo di aggirare il risultato dei referendum, che in parte però è anche rispettato in quanto non vengono imposti
sacrifici diretti ai cittadini, ma si procede gradualmente a seguito del recupero dei crediti della banca.
Sembra che ci vorranno parecchi anni perché Landsbanki possa rimborsare i debiti e che non siano certi di poterli
rimborsare per intero, ma che la volontà sia quella. Vedi http://grapevine.is/Home/ReadArticle/Breaking-News-
Landsbanki-Legally-Bound-To-Pay-Icesave e http://www.icenews.is/index.php/2011/12/09/uk-and-nl-receive-firsticesave-
refunds-esa-still-not-sure-about-legal-action
10 Questo partito nacque nel 1938, nel quadro della politica terzinternazionalista dei “fronti popolari”, dalla fusione tra il
Partito Comunista e la frazione di sinistra del Partito Socialista.
11 A seguito di questa unificazione il partito comunemente designato socialdemocratico cambiò nome da Alþýðuflokkur
(Partito Popolare) a Samfylkingin (l’Unione), presentandosi come potenziale competitore dei conservatori in un sistema
che avrebbe dovuto diventare pressoché bipolare. (Come si può notare, i giornalisti stranieri di solito designano i partiti
islandesi con termini quali socialdemocratici, conservatori, ecc. che non sono una traduzione letterale dei loro nomi
ufficiali ma rendono l’idea della loro vicinanza ideologica ai partiti di altri paesi europei). In realtà lo sfondamento non
avvenne e Samfylkingin conseguì percentuali di solito inferiori al 30%.
12 Ad esempio il “forum rosso”, http://raudurvettvangur.blog.is/blog/raudurvettvangur
13 Merita ricordare che tra i romanzi di Halldór Laxness, premio Nobel per la letteratura nel 1955 e popolarissimo in
Islanda, ve ne sono almeno due, Atómstöðin (La base atomica) e Salka Valka, che pongono in primo piano le lotte
sociali nella prima metà del novecento.
14 Il programma con cui si è candidato Jón Gnarr era un’evidente presa in giro delle promesse elettorali: comprendeva
asciugamani gratuiti nelle piscine comunali, l’acquisto di un orso bianco per lo zoo di Reykjavík (che non ha uno zoo) e
la lotta alla corruzione nascosta attraverso la pratica della corruzione palese.
19
15 Icenews, 29 novembre 2011, http://www.icenews.is/index.php/2011/11/29/icelandic-fisheries-minister-seems-to-beon-
the-line-but-says-his-job-secure/
16 Vedi anche Árni Daniel Júlíusson, “Inspired by Iceland... No, really!”, post del 7/10/2011 sul blog Saving Iceland,
http://www.savingiceland.org/2011/10/inspired-by-iceland-no-really
17 Trotskij L.D. (1930), La rivoluzione permanente, ed. it. Mondadori.
18 vedi Byock J.L. (1992) “History and the Sagas: The Effect of Nationalism”, in Gísli Pálsson (ed.), From Sagas to
Society: Comparative Approaches to Early Iceland (pp.43-59), Hisarlik Press.
19 La blogger islandese Alda Sigmundsdóttir dichiarava: “Ultimamente, il comportamento che alcune istituzioni europee
hanno avuto nei nostri confronti ha fatto perdere la fiducia della popolazione nei confronti dell’Unione perché ci è
sembrato evidente che nel cuore dell’ Europa ci fossero ben altre preoccupazioni che quelle per i cittadini islandesi.”
Vedi intervista alla rivista Limes, http://temi.repubblica.it/limes/la-bancarotta-islandese/6832, raccolta da A. Meringolo
il 6/10/2009.
20 Seðlabanki Íslands, Economy of Iceland, 6 ottobre 2010. Vedi: http://sedlabanki.is/lisalib/getfile.aspx?itemid=8134
21 Gísli Pálsson, Agnar Helgason (1995). Figuring fish and measuring men: the individual transferable quota system in
the Icelandic cod fishery. Ocean and Costal Management, 28, 117-146.
22 Vedi anche: Gísli Pálsson (1994). Enskilment at sea. Man: The Journal of the Royal Anthropological Institute, 29,
901-927.
23 In agosto l’editoriale della rivista Fiskfréttir, dell’associazione degli industriali della pesca, scriveva: “È impossibile
predire l’esito di questa controversia. Una cosa è chiara, però: la discussione in parlamento quest’inverno proseguirà in
modo accanito.” cfr. http://www.worldfishing.net/features101/new-horizons/fierce-battle-over-icelandic-fishery-system
Vedi anche Icenews del 29/11 (cfr. nota 15).
24 Nordicum-Mediterraneum, vol.6 (2011), n.1. Vedi: http://nome.unak.is/nm/6-1/21-interview/261-reflections-on-theeconomic-
crisis-one-year-on-an-interview-with-huginn-freyr-torsteinsson
25 Mi riferisco a ciò che un tempo era variamente chiamato l’intellettuale collettivo, il partito rivoluzionario, il partito di
classe, l’avanguardia politica: ci sono sfumature di significato che differenziano questi termini (che peraltro spesso ogni
organizzazione si auto-attribuiva in modo gratuito) ma, a fronte del deserto attuale, è meglio non addentrarsi in queste
sottigliezze e adottare un termine volutamente generico e minimale, “organizzazione politica adeguata”.
26 L’OCSE ha previsto per il 2012 una crescita del PIL dell’Islanda del +2,4% (contro -3,2% del Portogallo, -3% della
Grecia, -0,5% dell’Italia). Italia, Portogallo, Grecia avranno tutte una contrazione nel 2012, mentre Spagna, Francia,
Paesi Bassi e Germania rimarranno ferme. La politica islandese di drastica svalutazione assieme al controllo dei capitali
non è stata il disastro che in tanti avevano diagnosticato. Vedi: Evans-Pritchard A., “Iceland wins in the end”, The
Telegraph (28 novembre 2011), http://blogs.telegraph.co.uk/finance/ambroseevans-pritchard/100013462/iceland-winsin-
the-end/. Anche sul piano strettamente economico, le soluzioni islandesi funzionano!

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