Documento di QueerLab verso il Pride 2013 – Roma Città Aperta

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È il 29 giugno del 1969, quando Sylvia Rivera, trans, migrante e prostituta, tira una bottiglia in faccia ad uno dei poliziotti che aveva fatto crruzione allo Stonewall Inn. Quella bottiglia non solo ha dato vita ad una sommossa di qualche giorno, dove si fronteggiavano froci e travestite contro le forze dell’ordine, ma è stato il momento di riibellione e di rottura che ha cambiato radicalmente le prospettive delle persone LGBTQI. Il primo pride è stato riot e il movimento di liberazione che ne è nato, in Italia ha assunto le forme di un “fronte rivoluzionario”.

Sappiamo che il controllo dei nostri desideri e dei nostri corpi e la costruzione della soggettività sono le forme più profonde del
controllo sociale. Nessuna telecamera o nessuna camionetta potrà mai essere altrettanto invasiva. L’autoderminazione del genere, dell’orientamento sessuale, della propria identità è il fronte di liberazione più complesso e disertarlo è quanto di più miope le lotte sociali possano fare.

È evidente che i poteri non funzionano soltanto in modo repressivo, ma anche e soprattutto produttivo: tendono oggi a configurarsi non più come sorveglianza su soggetti già costituiti, ma come processi generativi di questi stessi soggetti, come produzione seriale di forme di vita, in una parola come pratiche di soggettivazione; tutto ciò avviene attraverso un uso strumentale dei saperi e una codificazione standardizzata dell’immaginario. L’esigenza di una riappropriazione
autonoma e creativa della soggettivazione inserisce perciò l’opposizione del movimento LGBTQI all’eteronormatività in una più ampia rete di rivolte: se la posta in gioco è la produzione normata di
vita soggettiva, la contrapposizione fra lotte sociali e lotte per i diritti civili perde ogni fondamento.

Dobbiamo smetterla di dire quanto noi non siamo tollerati dall’eteronomatività, ma quanto noi non siamo più disposti a tollerare lei.

Oggi il Pride è un crogiolo di contraddizioni. In molti paesi un rito stanco; in altri, come la Russia, terreno di scontro tra forze progressiste e forze integraliste e conservatrici. Sta ai movimenti e
alle lotte, alla loro presenza o assenza e alla loro capacità di incidere, determinare il senso e le prospettive di quella data e di quel percorso.

La partita in gioco è sostanziale: non si tratta di chiedere al sociale di dare manforte, in uno spirito di mera solidarietà, alla parte radicale del movimento LGBTQI. Si tratta, al contrario, di
aprire nei movimenti sociali la consapevolezza che se non ci si libera dalla repressione normativizzante e dalle culture moraliste, non c’è alcuna liberazione possibile. L’abbattimento dell’eteronormatività e del patriarcato non sono orpelli decorativi, ma tasselli fondamentali delle lotte di tutte e tutti.

Per fare ciò è necessario reinventarsi le pratiche di lotta affinché siano nuove e radicali, non tanto per uno stantio gioco di posizionamenti fra radicalità e moderazione, ma affinché siano davvero
all’altezza delle sfide che ci poniamo. L’insufficienza dell’attuale modello di Pride è, in questo senso,
evidente. Dopo essersi riappropriati di spazi, strade e luoghi, è ora più che mai necessario riappropriarci di date affinché non siano solo momenti celebrativi e simbolici, ma vere occasioni di condivisione e rivendicazione.
Per fare ciò non basta la presenza, nemmeno se organizzata. Non è sul piano numerico che si gioca la partita, ma su quello delle pratiche; non sul quanti, ma sul come si sta in piazza.

Praticare l’obiettivo. Spesso questa strategia ci ha portato sotto i palazzi del potere in questi anni, oggi dobbiamo capire quali possono essere i nostri obiettivi. Se sono luoghi da raggiungere, o modi di essere e di stare in piazza. Dobbiamo aprire una discussione seria, profonda, azzardata.

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